Il recente caso di un detenuto sessantacinquenne italiano, condannato a trent’anni di detenzione e che ha subito un progressivo deterioramento delle sue condizioni fisiche in carcere, solleva importanti questioni non solo giuridiche, ma anche bioetiche e professionali, soprattutto per chi, come me, opera nel settore sanitario e riabilitativo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per non aver garantito cure adeguate al detenuto, violando l’articolo 3 della Convenzione europea, che tutela l’integrità fisica e psichica degli individui.
Come fisioterapista, questo episodio rappresenta un chiaro fallimento del diritto alla salute, un diritto che deve essere garantito a tutti, inclusi i detenuti. La fisioterapia non è un servizio opzionale o secondario: per molti pazienti, rappresenta un bisogno essenziale, una componente cruciale del percorso di guarigione e mantenimento delle funzioni motorie. Nel caso di questo detenuto, la mancanza di terapie adeguate ha aggravato una condizione che poteva essere gestita e migliorata, se trattata tempestivamente e con continuità. Le sole dieci sedute di fisioterapia in due anni sono una quantità risibile di fronte alle necessità di una persona con patologie ortopediche e neurologiche importanti.
Sul piano bioetico, il principio di giustizia e di non maleficenza impone che nessuno, nemmeno chi ha commesso gravi reati, debba essere privato di cure adeguate. L’inadeguatezza delle terapie, in questo caso, non solo ha causato un peggioramento fisico irreversibile, ma ha compromesso anche la dignità stessa della persona, un principio cardine della nostra professione e della cura sanitaria in generale.
Il sistema penitenziario, pur con i suoi limiti, deve garantire che ogni individuo riceva trattamenti appropriati e tempestivi. La fisioterapia, in particolare, non deve essere vista come un lusso o un accessorio, ma come un diritto fondamentale per chi soffre di patologie muscoloscheletriche o neurologiche.
In questo contesto, la responsabilità non è solo dei singoli professionisti sanitari, ma anche di un sistema che deve essere in grado di rispondere in maniera adeguata alle esigenze di tutti i pazienti, indipendentemente dal loro status giuridico o dalla loro condizione sociale.
La multa inflitta all’Italia, sebbene di modesta entità, rappresenta una condanna morale molto più significativa: il fallimento di uno Stato nel garantire condizioni di detenzione umane e cure adeguate. Un monito che dovrebbe portare a un ripensamento serio e strutturale del modo in cui la sanità viene erogata nelle carceri, affinché casi del genere non si ripetano.
Il diritto alla cura è universale. Come fisioterapista, il mio impegno è sempre rivolto al benessere e alla dignità del paziente, indipendentemente dal contesto in cui si trova. Questo caso dimostra quanto sia fondamentale che tali principi siano rispettati e applicati anche nelle condizioni più difficili, come quelle carcerarie.